Il ritratto di Massimo Bonelli

Nero - About a Stage

I ritratti di Nero – About a Stage, sono istantanee che raccontano una storia. Sono professionisti che si sono presi una pausa dalla loro frenetica quotidianità durante un evento come Primo Maggio Roma, per raccontarsi e lasciare un segno, come racconterà il primo protagonista di questo capitolo: Massimo Bonelli, il direttore artistico di Primo Maggio Roma, ma anche produttore, manager consulente musicale, fondatore e direttore di iCompany. Una delle figure più emblematiche dietro alla scena musicale degli ultimi anni.

Uno sguardo ampio

Da 9 anni ho a che fare con il Primo Maggio Roma: un evento molto grande e complesso che ho imparato ad amare, ma anche un po’ odiare, perché ormai mi fa compagnia e attraversa la mia vita e i miei giorni.

In passato sono stato, e resto dentro di me, un musicista. Ho sempre cercato e ascoltato musica che viene da tutto il mondo, anche dall’Italia ovviamente. Lo facevo per trovare ispirazioni, spunti nuovi e lavorare a un mio progetto. Questa attitudine mi è rimasta anche quando ho smesso di suonare attivamente. La mia passione per la musica è anche dal punto di vista tecnico. Non ho fatto solo il musicista, ma ho anche organizzato piccoli eventi, ho fatto il fonico, il backliner, il tour manager. Ho fatto un po’ tutte le attività legate alla musica dal vivo e questo mi ha portato ad essere sempre in contatto con quello che sta succedendo attorno a me.

La musica che sta per accadere

Mi ha permesso di accorgermi, intorno al 2015, che qualcosa stava cambiando, che si iniziava a vedere una scena di nuovi artisti in grado di emergere. Stava nascendo quel fenomeno che poi è stato definito “Indie italiano”, che ha cambiato i connotati di artisti che, nell’arco di qualche mese, all’improvviso, passavano dal localino con 30 spettatori, ai palazzetti. È lì che ho pensato che quel mondo e il Primo Maggio potessero incontrarsi. Il concertone viveva un momento complesso, perché era un evento che raccontava, musicalmente, ancora gli anni ’90 e, a livello di retorica, era ancorata al racconto della lotta operaia. Un aspetto sicuramente molto importante, ma che aveva bisogno di essere reso attuale. Raccontare una storia già successa non era utile per risultare attrattivi anche negli anni ’20. 

Da lì è partito un percorso complesso, doloroso, pieno di insidie che però ho sposato dall’inizio, perché ero sicuro che fosse l’unico modo possibile per portare questo evento a tornare quello che oggi possiamo vedere. Un evento che sposta tanta attenzione, tanti artisti e che è diventato di nuovo rilevante come lo è stato tanti anni fa.

Digitale e fisico: due facce della stessa medaglia

Il digitale e il fisico, sono due facce della stessa medaglia. Il digitale, lo streaming, ha liberato la musica dal supporto, e l’ha resa sempre disponibile, dove e quando voglio, qualsiasi cosa io voglia ascoltare. Ad esempio, tutte le mattina, quando devo andare in ufficio e passo sulla Flaminia o sulla Salaria, posso decidere di ascoltare un brano dei Radiohead, oppure di Aiello, il tutto in due secondi. È una cosa che prima non sarei mai riuscito a fare, perché mi sarei dovuto portare dietro una valigia di CD, o di vinili, mi sarei dovuto fermare sulla Flaminia o causare un incidente per cambiare disco.

Il digitale ha liberato totalmente l’ascolto: è chiaro che poi l’esperienza digitale non basta, è parziale, ha bisogno anche di una condivisione che nasce quando si va ad un concerto insieme ad altre persone. Lì, appunto, si condivide la passione, l’emozione per quella canzone, per quella parola, per quel momento. Per questo dico che sono due facce della stessa medaglia: sono entrambi aspetti importanti che, sommati insieme, diventano l’esperienza musicale. Credo che, da un punto di vista di quantità di ascolti musicali, non ci sia mai stata un’epoca in cui si è ascoltata tanta musica come oggi.

La musica è ovunque: credo che questo sia positivo. Dalla musica che sta per accadere, arriviamo a “moltiplica la musica”, per citare altri claim importanti. Perché questo sviluppo moltiplica anche le necessità professionali. Se ci ha insegnato qualcosa la pandemia, è che serve insistere sulla professionalizzazione, non solo per chi sale sul palco ma anche di chi sta attorno al palco sia in termini di formazione ma anche di legislazione.

La musica è un lavoro: e che lavoro

In questi anni il cambiamento è stato costante. Con la tecnologia che accelera i suoi processi innovativi, l’evoluzione, nell’ambito tecnico, procede a una velocità incredibile. In tutto questo, però, non siamo ancora riusciti a dare una cognizione di causa a tutte le persone di quanto la musica sia un lavoro.

Chi fa musica, chi si occupa di musica è un lavoratore a tutti gli effetti: non è qualcuno che sta lì a divertirsi. Questa concezione è figlia del concetto della musica come bene superfluo, mentre in realtà la musica è un bene primario perché sposta moltissimo, rispetto al costo che ha. È un bene che paghiamo pochissimo perché ci arriva gratuitamente, con un piccolo abbonamento, tramite una connessione internet. Non la paghiamo quasi nulla, ma ci dà tanto, perché genera emozioni, ci fa cambiare l’umore, ci tranquillizza.

La musica è un bene prezioso e, proprio perché costa poco, in quest’epoca in cui tutto è valutato in base al costo, passa come una cosa effimera. Una delle mie battaglie principali è far capire che la musica è cultura: cultura in generale, ma anche culturale del lavoro perché coinvolge tante persone che sono professionisti e professioniste. Citando il Primo Maggio, ci sono maestranze che riescono a mettere sul palco 50 artisti, in una diretta televisiva di 8 ore: una cosa da Guinnes dei Primati, è surreale. Sono 400 persone che salgono sul palco e suonano e ci sono 15 professionisti che riescono a farlo succedere senza un fischio. Questo è un lavoro per persone che hanno una preparazione specifica, che hanno studiato, che hanno un’esperienza e che, per questo, vanno retribuiti e riconosciuti come grandi lavoratori e lavoratrici professionali.

Il ricambio generazionale post pandemia 

Il Covid ha creato un’accelerazione anche nel ricambio generazionale, perché molte persone durante quei due anni hanno cambiato lavoro. Questo perché chi si occupa di musica non è stato riconosciuto nel suo ruolo e nella sua precarietà lavorativa in un periodo in cui non si poteva suonare. Così, con la ripartenza, molte figure non ci sono più, e questo ha portato a una grande ricerca. Credo che sia sempre sano rinnovare, creare nuove figure professionali che si affianchino a quelle più esperte. Fa parte del mondo del lavoro, e c’è tanto lavoro. Mi auguro che si possa, attraverso i mezzi anche più strutturati, arrivare a sensibilizzare il percorso, anche politico e istituzionale, per dare nuove garanzie e riconoscimenti, trovare anche una gestione collettiva per alcune posizioni lavorative e, in generale, strumenti che siano da stimolo a tante ragazze e ragazzi affinchè scelgano di diventare professionisti del mondo dello spettacolo. Se si è bravi ed appassionati, si può andare molto lontano.

La burocrazia attorno a un evento come Primo Maggio Roma 

A Roma c’è una filiera molto abituata al grande evento. È una città molto estesa, importante e ricca di eventi, con funzionari che sono davvero bravi e riescono anche a superare alcuni problemi burocratici. Il nostro paese è super burocratizzato, come sappiamo, e non sempre si riescono a gestire in modo semplice queste pratiche. Ci sono città dove il processo organizzativo è più complesso che a Roma, con iter amministrativi difficili che complicano un sacco la vita a chi fa questo tipo di attività.

Chi, oggi, si cimenta nell’organizzazione di un evento, è un po’ un pazzo, perché si mette di fornte a una serie di problematiche assurde, di rischi incredibili. Alla fine, però, la passione e la voglia di lasciare il segno, avere un ruolo all’interno della realtà, in qualche modo, è lo stimolo che ti porta a farlo davvero. Ogni anno mi chiedo se ne valga la pena, e ogni anno lo faccio perché mi dà la possibilità di giocare la mia partita, di dire e lasciare qualcosa.

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